Tu parli di dialogo muto.
Dici che c’è un dialogo muto tra te e chi guarda la tua opera.
Senza parlare si dialoga: l’opera deve fare questo.
Le opere di pittura e di scultura devono avere un punto di contatto con le persone che le guardano. Quando parli con una persona usi il tuo sapere e il tuo linguaggio, questi sono gli strumenti che ti permettono di dialogare.
Nel momento in cui fai un’opera devi usare gli strumenti che hai, quindi è lecito ispirarsi al proprio entroterra culturale e così facendo porti una citazione…la citazione è lecita se vuoi dialogare con le persone.
Quindi si usano visioni già conosciute.
Certo, l’arte non è mai novità. L’arte non deve essere originale a tutti i costi. L’arte è dialogo ed essendo questo, è logico utilizzare un linguaggio comune…bisogna trovare un punto d’incontro.
L’arte è dialogo, necessariamente dialogo. Vuoi dire che un’opera deve sempre essere comprensibile?
Quando un artista fa un’opera e non sa spiegarla o non sa che cosa è, io rimango scettico perché non capisco cosa mi vuol dire…sì certo, ho dei colleghi che parlano di istintività, di astrattismo, ma io credo che l’opera non debba essere solo un gesto personale e individuale, ci deve essere una comunione di soggetti per cui “tu dici qualcosa e io ricevo…”, altrimenti non esiste dialogo…del resto io penso che anche l’arte astratta abbia un soggetto e quindi dialoghi.
Però un artista non può permettersi di essere un replicante.
Dove sta quindi la sua originalità?
Sta forse in quell’alchemica composizione di impercettibili proporzioni?
È forse in quel delicato insieme di giuste misure che un poeta, un pittore, uno scultore scoprono un discorso, un dialogo che evolve a nuove visioni?
Un artista può sembrare originale, può trovare una soluzione che non è mai stata provata…ma, in realtà, troverà una cosa già vista, forse fatta in un tempo in cui quella cosa non era matura.
Tante volte, di una grande opera, apprezzi quel particolare, quella sfumatura che fai tua, che interiorizzi. Poi la lavori, la elabori e quella cosa, nelle tue mani diventa altro e tutti possono apprezzare la nuova opera, possono far rivivere quella forma.
Quella cosa, che non era importante nel secolo in cui è stato fatto il lavoro, ora noi la recuperiamo e la facciamo diventare una cosa determinante.
L’arte può essere considerata “dialogo” si è detto, e in quanto dialogo tende ad un’evoluzione culturale, ad un continuo movimento.
C’è anche un altro aspetto dell’arte.
Si potrebbe dire che l’artista e l’arte sono due strumenti di avvicinamento al “mistero”?
Un artista oggi non può essere ateo, deve essere almeno cristiano, non dico cattolico, ma cristiano, perché è attraverso il Cristianesimo che il simbolo si fa sostanza.
L’artista è una persona che lavora per immagini, non può avere dubbi su di esse. Chi fa immagini è una persona pericolosa e gli artisti nella storia sono sempre stati visti con grande diffidenza…hanno sofferto molto, perché esplicitavano la sacralità che portavano dentro.
Quindi l’artista deve continuare a compiere in solitudine questo gesto di ricerca del sacro?
Deve tirar fuori la sacralità dell’uomo…noi siamo una particella comunque divina, nel momento in cui nasce un bambino ed emette il primo vagito ti accorgi della potenza della sacralità della vita…e l’artista se non ha la fortuna di essere cristiano deve avere la fortuna di amare l’uomo, perché è attraverso l’amore per le creature che nasce la necessità di raccontare qualcosa.
L’artista si trova così a parlare il linguaggio del trascendente, il linguaggio dell’anima.
È una presunzione, perché molte volte non ci si riesce.
Certo, l’artista è un cercatore del sacro, concordo, il problema è che oggi non esiste più una società che chiede il sacro. L’artista si trova solo, in questo suo gesto, potrebbe essere un Prometeo portatore di fuoco dagli dei agli uomini, ma oggi gli uomini non accolgono questo “fuoco”.
Il presente è triste…I grandi periodi storico-artistici sono stati fatti sì dalle grandi persone di genio, ma anche da grandi committenti. Abbiamo avuto un Rinascimento perché c’era una committenza raffinata, oltre che un’incredibile concentrazione di personalità geniali.
C’è grande potenzialità negli uomini e se c’è terreno fertile è possibile coltivare il talento.
Resta il fatto che sia scomparsa la cultura del bello fra i committenti.
Hai detto bene…l’hai chiamata cultura e la cultura è il frutto della civiltà. Vedi, l’uomo ha vissuto e vive periodi molto tragici come quello della seconda guerra mondiale; poi c’è una guerra come quella che ancora oggi subiamo che è la guerra del consumismo in cui tutti siamo coinvolti e trascinati. Questi eventi ci hanno sconvolto dentro, hanno sconvolto le nostre anime. È per questo che non si può tornare ad un Rinascimento. Il benessere diffonde un clima ovattato e narcotizzante. C’è una livellamento della cultura per tutti che in realtà è un tendere verso il basso…una finta uguaglianza sociale, una sorta di pantano…c’è una omologazione e l’arte di questo soffre…è nella diversità che sta la bellezza!
Ci sono persone che resistono e che continuano a lottare, altre che si chiudono e che non vogliono raccontare più niente a nessuno e queste persone sono come gli artisti che fanno un’arte per se stessi.
L’artista ha una missione da compiere. E questa missione consiste nello stimolare la società alla cultura del dialogo! È questo che potresti affermare?
È più forte di lui, è una necessità interiore…I grandi intagliatori del Seicento d’estate facevano i contadini e i boscaioli; poi d’inverno si dedicavano alle grandi opere scultoree, mantenevano loro stessi il loro progetto artistico.
È troppo importante quello che voglio raccontare. Per questo motivo lavoro come insegnante…e con il mio lavoro porto avanti i miei progetti. In passato ho fatto il decoratore, ma non ho mai accettato di fare scultura solo per guadagnare soldi. Quando lavoro ad un’opera ci devo credere e ci metto sempre tutto il mio amore! Non voglio sprecare il mio amore per lavori solo commerciali! Non accetto committenze che possano fuorviarmi, perché so di mettere la stessa sapienza e lo stesso amore in ogni opera che realizzo.
Ora facciamo un passo indietro. Come ha origine il tuo percorso formativo?
Io sono cresciuto in un ambiente vicino alla Chiesa, facevo disegni e dipinti di crocefissioni…mi si è configurata così una natura vicina ad un aspetto spirituale, anche se poi per anni ho evitato di fare temi sacri.
Poi hai frequentato l’Accademia di Belle Arti di Firenze.
Sì, dal 1982 al 1986, sono sati gli anni più belli e sofferti della mia vita. È stato un periodo sconvolgente…il mio insegnante mi scuoteva, ma io non capivo, non ero in grado di astrarre come lui chiedeva…non ero ancora maturo, non sapevo cogliere, ero un animo in formazione…solo più tardi ho capito la grandezza del mio professore.
A Firenze ci sono stati maestri che ti hanno influenzato?
Ho conosciuto molte personalità ma non mi hanno condizionato. Era il clima, la città, l’aria che si respirava in quegli anni che mi colpivano. Ho imparato più dai miei compagni che dai miei insegnanti.
Ho avuto dei compagni che venivano da tutto il mondo, molti di loro già insegnavano da anni, venivano in Accademia per approfondire, per perfezionarsi.
Erano studenti Iracheni, Israeliani, Palestinesi, Argentini…ricordo una signora Coreana che aveva una grande esperienza artistica: tutti erano lì come me e frequentavano l’Accademia.
Firenze era una grande attrazione, portava a sé persone da tutto il mondo. Ecco perché dal punto di vista formativo era una città molto interessante…poi c’era l’opportunità di lavorare sulla vera matrice: qualsiasi strada della città, qualsiasi museo è un capolavoro.
L’eredità culturale di Firenze è straordinaria. Non è pero altrettanto vivace e innovativa nel contemporaneo.
Sì…Firenze vive per la fortuna e l’intelligenza degli antenati, vive di rendita ed è un’eredità talmente grande che ne godrà in eterno. Il vero spirito fiorentino sopravvive fuori dalla città, nelle campagne, dove trovi realtà di grande spessore…un po’ come succede anche nella nostra provincia. Nel nostro Paese è sempre stata la provincia a portare energia e ricchezza alle città.
Cosa succede a Firenze durante i tuoi anni di formazione?
I primi due anni sono stati di intenso studio. Poi sono entrato in crisi perché sentivo la necessità di trovare un mio linguaggio e lì ho sofferto molto.
Hai memoria di qualche episodio significativo del periodo fiorentino?
Ricordo che un amico artista di Malta dormiva nello studio di Cifariello, collaboratore di Annigoni…noi ogni tanto andavamo nello studio del maestro Annigoni a bucare i cartoni per gli affreschi e vedevamo il famoso pittore con la tunica lunga…sembrava Tiziano. A volte il caso ti portava ad incontrare personalità molto famose.
E prima di Firenze quanto è stato determinante il contesto della tua famiglia nel portarti a intraprendere il mestiere dell’artista?
A volte mi chiedo come mai faccio questo mestiere, visto che nessuno della mia famiglia lo ha mai fatto…son dovuto partire da zero. Invece se guardo indietro nel tempo scopro che qualcosa c’era…esisteva un clima: c’era il mito di uno zio artista, le vecchie zie parlavano di questo nostro parente artista che veniva da Milano, con l’abito bianco e faceva ritratti…questo era il mondo dell’arte…un mondo misterioso, un po’ strano, originale.
Poi nella memoria ho mio padre Luigi, che pur essendo mancato quando avevo appena quattro anni mi ha lasciato un ricordo indelebile: lui era falegname, ricordo che un giorno eravamo seduti fuori dal laboratorio, per distrarmi modellò rapidamente con lo stucco rosso la forma di un piccolo leone.
Anche mia madre e mio padre Paolo, che frequentò la bottega dei maestri intagliatori Beneducci, sono stati due grandi promotori della mia formazione.
Secondo te nulla è lasciato al caso e alcuni segni che la vita ci offre si concretizzano in precisi appuntamenti che raggiungono tappe determinanti per il nostro destino. Alla luce di questa considerazione, quali sono stati il momento e il segno che ti hanno permesso di trovare la strada del tuo linguaggio?
Durante gli anni dell’Accademia a Palazzo Strozzi ci fu un’importante mostra di scultura africana. Da quel momento ho iniziato a scolpire con quell’idea di purezza rinascimentale decantata dalla grande forza di quella scultura primordiale.
Dunque il primitivismo della scultura africana filtrato con la grazia e la purezza del nostro Rinascimento?
Mi interessava la scultura arcaica africana, non quella del Settecento fatta durante l’epoca coloniale, un’epoca in cui la scultura africana esprimeva la propria spiritualità come reazione al potere degli invasori. Ciò che io vidi fu l’arte pre-coloniale, l’arte fra il 1100 e il 1400. Mentre in Occidente c’era il Medioevo, in Africa le forme mostravano la loro purezza classica come era accaduto in Grecia. Dopo la mostra nacque in me il desiderio di fare un lavoro che ricercasse quel nitore rinascimentale unito all’eleganza che era propria dell’arte africana.
Avevi già intuito la necessità della forma chiara non decadentista e ultimamente hai quel desiderio di tornare alle forme molto precise, un “ritorno all’ordine” diverso dalla velocità gestuale e informale che imprimevi ai dettagli nel primo periodo.
Sto lavorando di sottrazione ed è un nuovo modo di intendere la pulizia: per me la pulizia nella scultura è togliere i particolari, le pieghe, togliere la caratterizzazione e andare verso una sorta di bellezza ideale, come era già accaduto per la scultura greca.
Pian piano questa idea sta diventando più grafica, sta nel non avere paura del particolare e far partecipare chi vede alla bellezza del dettaglio, cosa che io prima non facevo, un po’ per volontà di ricerca, un po’ perché avevo un’idea diversa di bellezza, ma soprattutto perché avevo un’idea un po’ pagana di Dio, un’idea di Dio che era luce assoluta, non dettaglio.
Ora in questo sta il tuo riscoperto Cristianesimo: Cristo, il divino, è il simbolo assoluto del Dio incarnato nel quotidiano…quel quotidiano e quel realismo che sono l’essenza originale dell’arte lombarda.
Non ho mai viaggiato fisicamente, ma con l’arte e attraverso le persone che ho incontrato. Nelle mie opere ci sono riferimenti visivi che arrivano fino all’isola di Pasqua…tutto filtrato dal mio essere Lombardo, dalla mia brescianità che prima era vergogna, quella vergogna di essere provinciale, che poi è diventata orgoglio, mentre vivevo da provinciale a Firenze.
Da quel momento ho sempre elaborato le mie esperienze attraverso la nostra storia. Non dipingo molto, ma ho sempre negli occhi quei grigi perlacei del Foppa, poi usati dal Moretto, i verdi del Romanino…mi sono sempre sentito orgoglioso dei nostri grandi artisti del Rinascimento.
Non hai fatto il passaggio all’arte del Novecento italiano che evoca il primitivismo, influenzata dalla visione di Picasso, hai associato direttamente l’arte africana con il Rinascimento puro dell’Italia centrale. A questo hai aggiunto il Romanico delle pietre di Medol del Trecento bresciano. In sintesi non hai guardato da subito a Felice Casorati o a Marino Marini?
Mi sono avvicinato a Casorati e a Sironi quando mi sono accorto che il mio astrattismo era vicino al loro. Invece di studiare l’arte del Novecento, ho guardato ciò che gli artisti del Novecento guardavano. Non ero consapevole di quanto facevo e la realtà dell’Accademia di Firenze era troppo lontana dalle tendenze moderne.
Ebbi una grande folgorazione quando vidi per la prima volta le opere di Arturo Martini, capivo che in quelle figure c’era qualcosa che mi era vicino…in quel momento mi sono sentito quasi naif. Nella mia ingenuità, guardando il Rinascimento e l’arte africana ero giunto a immagini che sentivo prossime alle opere del grande maestro Martini. Tutto era accaduto perché io giungessi a quel punto. Il mio modo di fare scultura si stava rivelando. Poi, in seguito, ho ritrovato le opere di Giacomo Manzù!
Il grande critico formalista Roberto Longhi è il primo a parlare dell’esistenza di un’autonoma qualità dell’arte bresciana, che consiste in quel sorprendente, severo, analitico realismo già espresso dall’esperienza pittorica di Vincenzo Foppa. Poi Romanino, Moretto, Savoldo, Cerutti svolsero con diversa luce questa tendenza al reale. Testori dirà che a Brescia i pittori non idealizzano e dipingono con l’asciuttezza del loro dialetto. Caravaggio si forma a questa scuola, si trasferisce a Roma e il suo potente realismo espressionista cambia il modo di vedere pittura e idee in tutta Europa. La nostra terra è feconda di artisti schivi che spesso si nascondono al loro giusto valore.
Abbiamo tanta forza e allo stesso tempo ci disprezziamo. Abbiamo un’autocritica così forte che ci porta quasi all’autolesionismo. Anche qui ritorna il problema della committenza. Chi ha dato l’input a Caravaggio? San Carlo Borromeo e la fondamentale corrente filosofica del Riformismo Cattolico…e Caravaggio probabilmente va a Roma a seguito di un progetto del Cardinale. Allora capisci come tutte le sue nature morte possono essere lette con dei significati teologici precisi, sono delle grandissime vanitas…ti ricordano la caducità della vita della materia!
Dalla “sintesi” fra scultura del Rinascimento puro del primo Quattrocento e arte africana passi successivamente a delle “forme geometrizzanti”.
Sì!…Prima avevo paura della stilizzazione, poi pian piano iniziai a comprendere artisti come Brancusi e ne provai conforto. Avevo deciso volutamente di usare le fonti e non il lavoro fatto da altri. Non copio, percorro una strada parallela e ogni tanto arrivo a punti di contatto. Non ho imitato Brancusi, ma sono arrivato con il mio percorso alla sua nitida soluzione formale.
Ciò che mi conforta sempre per ogni gesto che compio nel mio lavoro è la mia onestà intellettuale.
Dal 2000 al 2004 non lavori a nessuna opera. Cos’ è accaduto? Perché sei stato attraversato da questi anni di silenzio?
Mi sono preso una pausa, o meglio…sì, ammetto di avere avuto una crisi, non sapevo se reiniziare con la pittura…non sapevo cosa volevo dire…ho fatto il decoratore, persino il contadino. Per fortuna mia moglie e le mie figlie mi hanno dato la forza di continuare a credere che la scultura non fosse lingua morta come sosteneva lo scultore Martini.
Che cosa può provocare una crisi?
Possono essere tante le cause. Ad esempio, fare una mostra comporta un grande dispendio di energie, forse c’è un’aspettativa e quando tutto finisce e smantelli c’è un senso di svuotamento. Lì bisogna essere forti!
Parliamo di nuovo del mercato dell’arte e della committenza. Oggi tutto è quantificato e monetizzato, lo stesso lavoro “spirituale” di un artista acquista valore solo quando cresce all’interno del mercato. Cosa pensi di questa forzata monetizzazione dell’arte?
Ho sempre anteposto a tutto l’amore per il mio mestiere e spesso non ho accettato lavori in cui non credevo. Fin dall’inizio ho voluto essere libero dal mercato, libero di sbagliare, libero anche di non lavorare.
Questa libertà non è facile da gestire. Certo…il committente chiede molto, ma ti sprona anche a produrre e a rigenerare.
È vero! Ho fatto pochi lavori grazie alla committenza, non la rifiuto, la seleziono. Ho sempre deciso per lavori che avevano dignità.
Ora per esempio mi sto dedicando a soggetti di arte sacra e lotto affinché conservino la loro autenticità di opere d’arte sacra: come può essere sacra un’opera se non viene pregata? La mia arte è fatta con religiosità e con fede; la mia, è una spiritualità che arriva da lontano ed ora è molto spontanea.
Le tue opere sembrano rivolte ad una collettività, come accadeva nelle epoche arcaiche, dove gli idoli realizzati dagli artisti erano collocati nei templi per essere incontrati e pregati da un gruppo di iniziati. Sono come dei totem, dei luoghi o dei fuochi che attendono nel loro sommo silenzio di essere ascoltati. Così hai realizzato idoli pagani per poi giungere a quella figura centrale del volto di Cristo.
Il Cristo è un’opera che racchiude in sé molti punti di vista, è un’opera che raccoglie il mio sofferto percorso di fede.
Vuoi parlarci di quest’opera?
Il vero soggetto dovrebbe essere la “Vera Icona” di Cristo. Il volto di Cristo appare dietro il velo della Veronica; la vera icona non ti dà la soluzione, prospetta più soluzioni. La verità ha più volti, perché non ne esiste una sola, ma tante…tante visioni della stessa …per me la vera icona è questo: tante sfaccettature della mia verità, della mia immagine di Cristo, del mio volto di Cristo.
Il tuo Cristo presenta delle soluzioni che sembrano realistiche e accademiche!
Sì, così appare, ma in realtà è una delle figure più squilibrate e meno classiche che ho realizzato!
Vorrei innanzitutto che le persone si fermassero ad osservare…è una figura profondamente asimmetrica nella sua simmetria, cioè è sia una cosa che il contrario di essa, come il Cristo che ha in sé una natura divina e una natura umana.
Se viene illuminato da una certa angolatura ne risulta un Cristo trionfante, è Dio; se illuminato dalla parte opposta è un Cristo sofferente, è l’uomo. Forse tra le mie sculture è la più complessa nella sua apparente semplicità.
È come costruire una struttura sovrapponendo più strati, più visioni, più significati…bisogna però conservare la freschezza nella comunicazione…il metodo di costruzione è solo uno strumento che ti deve servire per dare valore all’opera, non deve diventare predominante, altrimenti il mestiere prevale sul dialogo, su ciò che vuoi raccontare con il manufatto.
In questa scultura, dietro”Il volto di Cristo” si percepisce il vuoto. Che cosa intendi trasmettere con questa sensazione?
Volevo fissare in quel vuoto l’essenza dell’anima che c’è e che non c’è…non si può rappresentare l’anima, ma è la sua energia che genera dall’interno le forme.
Per me la scultura è come l’aria che c’è nella mongolfiera, se togli l’aria la struttura perde forma. La scultura ha un’anima dentro che vuole uscire e la rende viva: è questa potenza ed è la potenza di quest’arte che mi interessa e a cui tendo.
La mia non è una scultura pittorica, non è qualcosa di aggiunto, per me la scultura è una forza dentro che spinge per poter uscire.
Come procedi nella ideazione, preparazione ed esecuzione di una tua scultura?
Prima di iniziare un’opera vivo un grande travaglio interiore, poi l’opera una volta pensata e meditata viene realizzata in poco tempo.
Le soluzioni sono pensate e volute, non esiste la casualità nelle mie opere. Prima devo studiare e capire, dopo una volta eseguita la scultura, la scelta può sembrare non prevista, deve mantenere freschezza, deve essere rapida nell’esecuzione. Io non ho ripensamenti!
A cosa stai lavorando in quest’ultimo periodo?
Ho iniziato a giocare con la prospettiva: statue che sembrano a tutto tondo, ma in realtà hanno una visione privilegiata…sono molto basse, sono compresse…si gioca, con loro, sulla profondità…